Il culto della Madonna d’Itria dall’Oriente ai paesi della Sardegna

Il culto della Madonna d’Itria dall’Oriente ai paesi della Sardegna


di Albertina Piras e Antonio Sanna ed.aipsa

Il culto della Madonna d’Itria o dell’Odigitria, presente in molte località dell’Italia centrale e meridionale, della Sicilia e della Sardegna, nasce dalla venerazione di un’icona della Madonna, attribuita a S. Luca evangelista, custodita per tanto tempo a Costantinopoli e protetta dai monaci basiliani.
Questa icona ha una storia ricchissima, segue in pratica tutte le vicende della città; i fedeli la invocano e gli imperatori la portano in battaglia e nei cortei trionfali attribuendo alla Madonna strepitosi miracoli. Il dipinto resiste alla furia iconoclastica messa in atto dall’imperatore Leone III Isaurico, che ordina la distruzione delle immagini sacre; l’icona della Madonna viene riposta in luogo sicuro e a motivo del lungo nascondimento fioriscono numerose leggende, tra cui il suo trasferimento nelle spiagge pugliesi e poi nella cattedrale di Bari. Questa leggenda, giunta fino a noi attraverso rime poetiche, novenari e altre tradizioni popolari, è comune in tutta la Sardegna. Oggi sappiamo con certezza che l’icona di Bari è una copia e il suo arrivo è assolutamente leggendario. L’icona custodita a Costantinopoli venne distrutta dai Turchi nel 1453, quando questi invasero la città riducendola a un cumulo di macerie, massacrando quarantamila persone e riducendone in schiavitù cinquantamila.
L’icona dell’Odigitria seguì la sorte del suo popolo, ma il suo culto si diffuse oltre i confini, giungendo fino a noi.
Pensiamo che valga la pena incamminarci nei sentieri della storia, per conoscere gli eventi fondamentali che hanno dato origine a questa grande manifestazione di fede. Pensiamo anche che le ragioni del culto vadano oltre il dipinto stesso, ricercate nell’esperienza del divino che un popolo fa nella sua storia. Quando il culto dell’Odigitria giunse in Sardegna, quasi sicuramente nel periodo in cui l’isola era provincia bizantina, dal 533 al 900, la nostra terra aveva già i suoi martiri e i suoi eroi, aveva accolto vescovi esiliati e aveva elevato al soglio pontificio celebri papi.
E poi c’è un’altra esperienza di fede che un popolo fa, ed è quella che vive nell’intimità tra le pareti della sua casa, con le storie sentite dai suoi vecchi, tramandate da una generazione all’altra chissà da quando. Come con le antiche preghiere, anche con l’immagine della Madonna d’Itria noi abbiamo un legame che ci porta lontano nella storia e ci fa pensare al tempo in cui essa è stata dipinta la prima volta.
Noi contempliamo la nostra Madonna non con gli occhi corporei, ma con quelli dell’anima e della fede. Col passare del tempo abbiamo imparato a leggere il suo volto e a stabilire un rapporto con la sua persona. E’ Lei la nostra Signora di guida. E’ solenne, regale, consapevole di quel che ha e può, volge il suo sguardo verso di noi.
Lei conosce la strada.

Autenticità delle fonti
Quando le notizie stravolgono l’autenticità di un percorso tradizionale, il lettore si disorienta perché tra fonti e tradizione perde il raccordo. Si rende dunque necessario verificare
Vogliamo riferirci alla pubblicazione dell’Unione Sarda “Santi, patroni e chiese della Sardegna paese per paese “
A pagina 24 “ Chiesa di San Giovanni Battista a Villamar “ del volume 24 si parla della festività del paese riservata alle onoranze della Vergine d’Itria.
Leggiamo: “ La festa di Nostra Signora d’Itria si svolge la terza domenica d’agosto. Secondo la tradizione la statua della Madonna fu rinvenuta in una spiaggia del golfo di Cagliari, all’interno di un baule di legno, affidato ad alcune religiose, durante il trasporto i buoi si fermarono proprio a Villamar e lì si decise di lasciare per sempre il simulacro costruendo una chiesa per accogliere la Vergine”.
Questo arrivo in una cassa che naviga sul mare nel golfo di Cagliari e approda ai piedi del colle della chiesa dei domenicani è un miracolo che si riferisce alla santissima Madonna di Bonaria.
Facciamo un percorso storico: a Pauli Arbarei esisteva una chiesa dedicata a S. Agostino, era a 100 metri dalla chiesa di San Vincenzo martire, ed era considerata campestre, sebbene a poca distanza dal paese; era piccola e ben tenuta.
Al loro arrivo gli agostiniani, nel 1421, fondarono nei pressi della chiesa di S. Agostino un convento.
Questi monaci nel santuario della Consolata di Torino custodiscono una sacra immagine proveniente dall’Oriente. Per alcuni secoli l’immagine scomparve, poi su indicazione divina si scavò in un luogo indicato e venne alla luce l’antichissima icona che rappresentava l’Odigitria ( La Madonna d’Itria ).
Nella festività della Consolazione a Lunamatrona i confratelli abbinavano nei loro canti i goggius della Consolazione e della Madonna d’Itria.
A Pauli Arbarei i frati agostiniani sentirono il bisogno di acquistare un simulacro della Madonna d’Itria per il convento e quando la statua arrivò a Cagliari, mandarono un carro di buoi con alcuni uomini a ritirarlo. Il viaggio di ritorno si svolse lento e faticoso e giunti a Villamar di prese la strada per Pauli Arbarei. Ma ad un tratto i buoi fermarono il carro e non volevano proseguire. Poi con insistenza e violenza con il pungolo i conducenti riuscirono a riprendere il viaggio. A ricordo di questa fermata, visibile su una colonna un’antica croce. I buoi ripresero il cammino ancora per 500 metri, fino alle vicinanze della chiesetta della Madonna di Serra Sinnas che delimitava il confine del Giudicato di Arborea. Poi non riuscirono più a smuovere i buoi né col pungolo né con altre azioni violente. A quel punto fecero intervenire sul luogo i frati agostiniani e il parroco e le autorità civili di Villamar. Essi concordarono tutti nell’affermare che la Madonna d’Itria aveva scelto di rimanere in quella chiesetta.
Questo con tanta amarezza de “ is pauesusu “ che ancora ne risentono e dicono “ Sa Madonna d’Itria è sa nostra”. In seguito, la chiesa fu ampliata. In una carta toponomastica dell’Ottocento, sulla chiesa si può leggere: M. V. D’Itria Sinnas ( Serra Sinnas )
Foto a destra: libro di Albertina Piras e Antonio Sanna