Gente di casa storie di vicinato (volume I)
Il libro “Gente di casa storie di vicinato” è la ricostruzione della storia di oltre mezzo secolo fa, vista dall’angolo di visuale di una bambina che vive immersa nelle attività lavorative della sua gente, che tramanda e racconta.
Tutti questi fatti vengono raccolti come pezzi da collezione e alla fine sono ricomposti seguendo una linea narrativa che collega tutti gli eventi. Così nasce il libro.
Nel libro si possono leggere storie di quotidianità tipiche degli ambienti del mondo agro pastorale che l’autrice stessa ha avuto il piacere di ascoltare da bambina. La trama prende spunto dai racconti dei vicini di casa ripresi nelle notti d’estate; segue quindi una linea narrativa che ripercorre sia in momenti ricreativi sia quelli delle attività lavorative di un tempo. Le storie hanno l’aspetto identitario come unico comune denominatore e vengono raccontate come se si trattasse di quelle favole che i bambini vogliono sentirsi raccontare ancora per rivivere l’emozione della prima volta che l’hanno ascoltata.
Mamma mi diceva sempre che non dovevo avere paura, che era peccato avere paura. Sì, era vero che c’era la morte, ma lei veniva solamente per accompagnarci nel Paradiso, dove il Signore Dio faceva preparare per noi tavolate con bianche tovaglie di lino, piene di ogni delizia. E quanto ai diavoli, solo i cattivi dovevano aver paura di loro, ma i buoni no, non avevano proprio niente a che fare con loro. Ci tentavano i diavoli a farci passare
dalla loro parte, e per questo motivo noi dovevamo pregare tanto, per stare sempre vicino a Gesù, che ci aveva liberato dal male morendo sulla croce per noi.
Babbo e mamma si volevano molto bene. Babbo era il tipo che le portava i mazzi di fiori quando rientrava dalla campagna. Mamma se ne rideva della sua galanteria e babbo non se la prendeva, non ricordo che le abbia mai rivolto una parola in modo sgarbato.
La gente di Villamar era diversa da quella di Furtei, e sia mamma che babbo dovevano studiarsi un modo di rapportarsi diverso con le famiglie e le persone che lavoravano in azienda. Ma poi alla fine tutto il mondo è paese e avevano trovato tante persone buone. Però in mamma c’era sempre quella nostalgia e quella sofferenza, specialmente quando sentiva qualcuna dire: «Vado da mamma.» Perché per lei non era semplice andare dalla sua mamma. Anche se Furtei distava da Villamar solo sette chilometri.
Nella camera da letto, appeso a una parete, c’era un enorme ritratto del figlio con la ragazza: lei con lo sguardo patetico rivolto verso di lui; lui trasognato, dubbioso quasi della realtà che stava vivendo. Questo ritratto era come il preludio della tragedia che si sarebbe abbattuta su di loro.Perché quest’amore che sconfinava nel sogno era finito nel tragico. Lei, nella fobia dell’abbandono, quando lui era venuto in licenza in Sardegna, si era suicidata e lui, a sua volta lui si era sparato quando, ignaro del fatto, si era presentato in casa di lei ed era stato scacciato con una grandinata di accuse e responsabilità.Piegata mille volte, scolorita da centomila lacrime, in fondo alla scatola dei ricordi zia Lina custodiva l’ultima lettera del figlio, quella che aveva scritto prima del suicidio. Su quest’ultima lettera straziante d’addio, io con Lina avevo pianto mille volte, mille volte su di essa ho riflettuto pensando alla vita, alla morte, all’amore, al sogno.
Zia Minia al tempo della mietitura andava sempre a spigolare. Aveva mani svelte e schiena elastica; non le era difficile farsi scegliere da un bravo mietitore, anche perché era fresca come una rosa…allora. Aveva solo sedici anni quando il fidanzato era partito in guerra. L’anno stesso zio Luigi le aveva proposto: “Senti, Minia, ci vieni con me quest’estate a spigolare”
“ Perché no?” gli aveva risposto zia Minia.
E così, alla fine di giugno, quando le spighe erano diventate come l’oro, alle prime luci dell’alba, avevano iniziato il lavoro, insieme agli altri mietitori e spigolatrici.
Zio Luigi, grembiule e bende di pelle nelle braccia per proteggersi dalle aride spighe, berretto con grande fazzoletto svolazzante per il sole e i moscerini, falce alla mano, avanzava nel mare d’oro descrivendo un lunghissimo rettangolo nel campo falciato. Col grano mietuto formava nella mano “su manugu” che legava girandovi intorno un paio di spighe e poi poggiava per terra. Quando aveva mietuto cinque o sei manugas le legava tutte assieme e formava il covone.
Zia Minia, con una sacca legata ai fianchi lo seguiva, raccogliendo le spighe scampate alla falce. A destra e a sinistra, mietitori e rispettive spigolatrici facevano lo stesso, senza che nessuno invadesse il campo dell’altro, ma zia Minia sembrava la più fortunata di tutte. Che zio Luigi facesse bracciate troppo grandi o che di proposito si lasciasse sfuggire qualche spiga come segno d’amore per zia Minia. Fatto sta che in tutto il periodo della mietitura che durava un mese, zia Minia raccoglieva anche dieci starelli di grano.
Per un senso di mutua riconoscenza zia Minia aiutava sempre zio Luigi a legarsi il grembiule, a mettersi le bende nelle braccia prima di cominciare a mietere, gli portava l’acqua quando aveva sete e l’aiutava a caricare il carro.
Zio Luigi saliva sopra il carro e zia Minia gli porgeva i covoni. E tra un covone che sistemava nel carro e uno che prendeva, un giorno zio Luigi aveva detto a zia Minia:
“Senti, Minia, perché non ci sposiamo assieme, tanto Peppino dev’essere morto. Dicono che questa volta in guerra muoiono tutti, perché i nemici sono troppo forti”.
Al momento di scolare la pasta, zia Dolla prese il pentolone dal camino, lo poggiò appena…si sentì zacc…la cucina si riempì di vapore, di acqua bollente, mentre i ” maccarronis de cibiru” si disponevano in ogni angolo della stanza. Zia Teresa andò a chiamare mamma, che stava facendo accomodare a tavola gli ospiti.«Ma cosa stai a perdere tempo tu! Va’ immediatamente al pagliaio e raccogli tutte le uova che trovi: di gallina, di oca, di anatra, di tacchino…corri…prendi una cesta!» Di tutta quella grazia di Dio non se n’era fatto nulla. In cinque minuti zia Teresa aveva raccolto una cesta d’uova e mamma le aveva fritte. Gli ospiti avevano mangiato e bevuto e non si erano accorti di nulla.
Quand’erano arrivati in fondo al pagliaio, mamma aveva preso un tridente e aveva fatto una buca, poi aveva detto a babbo: «Guarda!» Babbo aveva fatto una faccia, zia Dolla si era messa a ridere e mamma lo stesso. «Voi siete pazze da legare! Nascondere questa
roba in casa!»
Accendono la luce e vedono il disastro che aveva combinato l’asino: aveva tolto il tappo alla botte, che ormai era quasi vuota, aveva bevuto molto vino ed era ubriaco fradicio. Era l’una di notte. Decidono di andarsene immediatamente, perché non erano in grado di sopportare quella vergogna, né sapevano come porvi rimedio. Nella carretta avevano seicento uova. All’uscita di Baressa, l’asino non si reggeva più, e attraversando un ponticello erano caduti tutti: l’asino sotto con le uova e i due sopra.
Alla fine, mentre versava il grano setacciato nel sacco disse:«Sapete, sto aspettando un altro figlio!» Tutte si erano fermate di colpo «Davvero? – dissero in coro – e da quanti mesi?»
Un giorno presto presto zia Angelina Cardia era andata a casa di zia Minia; insieme avevano dato una riassettata alla camera da letto, messo le lenzuola ricamate, il copriletto a uncinetto bianco, acceso due candele. Zia Minia si era distesa nel letto e zia Angelina le aveva messo un velo in faccia, un rosario tra le mani in croce e piangendo era andata da zia Letizia, la cognata di zia Minia, che viveva nella casetta attigua, nello stesso vicolo, dicendole: «Letizia, fa’ coraggio, Minia è morta!»
L’indomani mattina la mamma aveva accompagnato zia Beata a scuola. «Cosa mi comanda di fare, signorina Giulia?» «Il comando è questo: tagliare i capelli alla bambina, perché la paura dei pidocchi è troppo grande, e lei sa che quelli vanno nelle teste di chi ha molti capelli…dunque…» «La bambina non ha pidocchi, anche se ha molti capelli» aveva precisato la mamma di zia Beata.
Quando zio era partito militare, però, per forza di cose aveva dovuto cercare un intermediario fra lui e zia, e amaramente si era dovuto sottomettere e confidare ad altri ciò che per lui era un segreto geloso.Il suo compagno aveva saputo interpretare alla
perfezione i suoi sentimenti e la lettera che aveva scritto su commissione era curata nei minimi dettagli, come zio gli aveva raccomandato. Su un punto però non erano rimasti d’accordo e cioè sulla conclusione della lettera, che il continentale (così zio lo chiamava) voleva chiudere in baci e abbracci, mentre zio invece voleva chiudere con la cordialità dei saluti. Il continentale aveva fatto di testa sua.
«Guarda!…c’è un bandito!» Zio Tomaso rimaneva sbigottito…si concentrava in se stesso per raccapezzarsi un po’…si guardava allo specchio…gli sembrava di conoscersi, sì, di averlo visto un’altra volta quel bandito e…poi rideva…ma era lui quel bandito! Rassicurava la moglie spaventata e intanto si dirigeva verso l’uscio.
Ma zia Luisa non gli dava tregua. L’indomani mattina la mamma aveva accompagnato zia Beata a scuola. «Cosa mi comanda di fare, signorina Giulia?» «Il comando è questo: tagliare i capelli alla bambina, perché la paura dei pidocchi è troppo grande, e lei sa che quelli vanno nelle teste di chi ha molti capelli…dunque…» «La bambina non ha pidocchi, anche se ha molti capelli» aveva precisato la mamma di zia Beata. «Ne abbia o non ne abbia fa lo stesso; lei tagli i capelli alla bambina, diversamente prendo un paio di forbici e glieli taglio io…a zero!» «Dio la scampi e liberi dal fare simile cosa alla bambina, guardi che la sto avvertendo!
E lui arriva presto, valigetta con attrezzi del mestiere, pronto a fare il lavoro…ma zio Antonichetto in casa non c’è. Non importa… lo aspetta… si siede. Zia Letizia, la moglie di zio Antonichetto, ha un gran da fare in casa con la decina di figli che si ritrova: ragazzini piccoli che si spandono come argento vivo in tutta la casa. Intanto zio Antonino dispone i coltelli sul tavolo. Di tanto in tanto qualcuno si avvicina al tavolo…ci sono quegli arnesi col bordo luccicante! «Ciuccio… piccolina… non si tocca… fa la bua… va’ di là a giocare!» E zio Antonino comincia a perdere la pazienza. Alla fine scatta: «Senti, Letizia, per favore, tira fuori gli agnelli, perché io senza fare nulla qui non ci sto. Vuol dire che quando tuo marito arriva, il lavoro lo trova fatto!»
Quando l’autunno avanzava, babbo invitava zio Antonino Rubiu per ammazzare il maiale. Sempre pronto, non si faceva pregare. Arrivava di buon mattino con una valigetta piena di coltelli di tutte le misure, che affilava in casa sua con un attrezzo apposito, composto da una ruota di pietra che girava azionata da un pedale.
Disperata era uscita di casa e, cercandolo era arrivata a casa della suocera. Nessuno l’aveva visto. Era stato come se il vento l’avesse raccolto.Il pomeriggio c’era stato un acquazzone, il fiume era cresciuto, zia si stava mettendo in testa che il marito fosse caduto dentro il fiume. Disperata era tornata a casa, perché aveva lasciato tutto aperto e, com’era entrata nella stanza aveva visto il marito coricato nel telaio dove lei stava tessendo. «Ma cosa fai? Ti sei coricato sul telaio?» aveva urlato zia. «Ih, là…che mi era sembrato il letto!» aveva risposto zio levandosi di soprassalto.
Arrivata in cucina aveva attizzato la fiamma del caminetto e dato due o tre colpettini ai tizzoni scintillanti. Poco dopo era calata la brace. A quel punto prese una graticola, disposto fette di carne grosse un palmo, spianò la brace e avviò alla cottura. Poi prese un’altra graticola. I figli, una decina, presero tutti posto intorno al tavolo – con piatto davanti e forchetta e coltello in pugno – un occhio alla brace scoppiettante con la graticola di carne quasi cotta e l’altro occhio alla graticola di carne cruda che la mamma stava preparando.
Zio Pietro, il marito di zia Minetta, era un grande narratore e la sera, dopo aver abbiadato i buoi accendeva un grande fuoco e noi tutti ragazzini andavano a sentire le sue storie.Ci parlava della creazione del mondo ad opera di Dio, della sua venuta sulla terra e della grande luce che aveva portato nel mondo di tenebre. I pastori andavano tutti ad adorarlonella grotta di Betlemme. Ci sembrava che Betlemme fosse a due passi.
Zio Pietro andava all’osteria e rientrava sempre in compagnia di zio Antonio. Rientrava tessendo le lodi a San Pietro…che era il santo più grande che c’era…che aveva le chiavi del regno…che non ce n’era altri santi grandi come lui.
Zio Antonio osava dire che era grande pure Sant’Antonio. Ma zio Pietro non gli concedeva nulla.
Se nel cortile delle mucche zio Pietro predicava, zio Pino Incani cantava. Cantava quando aveva paura, cantava quando era contento, cantava per intrattenere noi bambini che andavamo a scaldarci la sera accanto al fuoco. Non so se i testi fossero suoi, ma li sapeva
interpretare così bene che sembrava conoscesse di persona i suoi personaggi. Raccontava di uno che era sempre ben vestito e tutti pensavano che avesse soldi. Era miserabile, povero lui, certi giorni non sapeva come tirare avanti. ʺe fattu fattu andanta a ddu sequestraiʺ.
Al figlio di zia Minia, Dante, piacevano molto le lenticchie. Ne mangiava anche tre piatti. Appena si sedeva a tavola guardava il pane, che di solito era “civraxiu”, prendeva un coltello e ne tagliava diverse fette. I compagni se le passavano da uno all’altro e quando Dante finiva di tagliare, pane per lui non ce n’era. «Ma… vi volete prendere un brodo!» diceva e ricominciava a tagliare il pane. Era sempre allegro, pronto alla battuta.