L’orto dei Podda
Di fronte alla fonte dove si andava a prendere l’acqua, c’era l’orto dei Podda. Era un incanto. C’erano piante di melograno, albicocche, susine, prugne, pere, mele e una spettacolare pianta di more nere.
Se pagavamo l’ingresso, che era dieci lire, potevamo entrare nell’orto e starci una mattina, mangiare tutte le more che volevamo, riempirci le tasche e farci la provvista nella quantità che volevamo. Nell’orto c’era un pozzo e intorno al pozzo girava un asinello che azionava una grande ruota intorno alla quale c’erano recipienti di terracotta legati tra loro da una fune; questi entravano e uscivano dal pozzo. Come la ruota girava i recipienti scendevano e si riempivano d’acqua, poi venivano portati in alto e l’acqua pescata precipitava dentro una vasca.
La verdura era piantata in lunghe strisce. Tra una striscia e l’altra c’era il solco e lì l’acqua veniva fatta scorrere; quando arrivava fino in fondo, l’accesso dell’acqua si sbarrava con una palata di terra e si passava ad irrigare il solco successivo. Così, uno dopo l’altro venivano irrigati tutti i solchi e l’orto acquistava la forma di un perfetto disegno geometrico, con rettangoli di piantine di melanzane, quadrati di zucchine, triangoli di cavoli e linee rette e oblique.
Nell’orto, verso le nove, tutti i giorni, con una comica carretta trinata da un asinello, arrivava zia Speranza, per fare il carico della verdura. Le correvano dietro una sfilza di nipoti, ragazzini dai dodici ai cinque anni. L’asino aveva pazienza da vendere, zia Speranza si muoveva a fatica, grassa com’era. In un minuto la carretta era piena di verdure di ogni tipo, la frutta sistemata in casse piene; con l’ortolano i conti eran presto fatti.
Zia Speranza cominciava la vendita nelle strade del paese. I nipoti entravano con mazzi di verdura in una casa, ne sbucavano da un’altra chiedendo soldi in cambio. Zia Speranza si confondeva e urlava, il carico si alleggeriva, la verdura finiva e i conti non tornavano.