Le zeppole di mamma
Cominciava a impastare la farina nella conca con le uova e il latte dicendo che a Furtei le zeppole le facevano così e a Villamar cosà; ma siccome lei era di Furtei le faceva così, come aveva visto fare dalla mamma, che però non era di Furtei, era di Serrenti. Per farla breve, le faceva a modo suo. Perché, appena si era trasferita a Villamar, una vicina di casa, dopo essersi mangiata a quattro ganasce le zeppole che le aveva servito, aveva preso a dire che quelle che faceva lei erano più soffici, perché lei ci metteva il bicarbonato. E così mamma si era fatta impastocchiare dalle chiacchiere di quella ciarlona e la domenica successiva, insieme al lievito, aveva messo anche il bicarbonato, come le aveva detto la vicina. Il nuovo ingrediente quella pasta non l’aveva gradito: era rientrata in se stessa come una lumaca nel suo guscio, riassorbendo tutte le bolle, abbassando il livello nella conca e raggrumandosi come argilla; non c’era verso di prenderla né con le mani, né col cucchiaio, né col mestolo. Versata alla meglio nell’olio bollente scoppiettava e sibilava come una miccia accesa, costringendo tutti a trincerarsi. Mamma, furiosa, aveva preso la conca e aveva versato l’impasto nel cortile delle galline. Quelle povere bestie si impantanavano e rimanevano sigillate in quella sostanza appiccicosa; dopo vari tentativi riuscivano a districarsi e a venirne fuori, ma il loro andare era lentissimo, inframmezzato da interminabili soste nelle quali si intrattenevano a darsi forti beccate per togliersi di dosso quelle pallottoline bianche che si attaccavano nelle zampe come patelle.
Però mamma diceva che solamente chi fa sbaglia; e chi fa azzecca e sbaglia e non bisogna fare un dramma se qualcosa non va bene.Una signora di Villamar, invece aveva scatenato il pandemonio in casa quand’aveva visto che le zeppole non lievitavano: metteva la pasta vicino al fuoco, la copriva con sei o sette coperte… Niente da fare: come l’aveva messa era rimasta.
Allora aveva cominciato a battibeccare con la domestica, che le diceva che quelle che faceva con l’altra padrona venivano sempre buone e qua e là. E una parola tirava l’altra e dal dire si passava al fare; erano passate alle mani e la padrona aveva buttato fuori di casa la domestica e poi però si era pentita, troppo tardi, però, perché la domestica non voleva sentirne di tornare indietro. E allora la padrona si distrugge, torna il marito e la trova in un fiume di lacrime e allora va lui a chiamare la domestica. Ma la domestica si è chiusa a sette giri di chiave in casa sua, e il padre dice che la figlia sta piangendo come una fontana e vanno insieme dalla padrona. E piange il marito e piange la moglie e piange il padre della domestica. Arrivano, sempre in lacrime la domestica con la mamma e tutti a piangere…insomma avevano allagato tutta la casa.
Meglio sarebbe stato se avessero scaraventato anche loro quell’impasto alle galline. Chissà…forse non sarebbero neppure rimaste attaccate come invece rimanevano le nostre.
Zia Costanza, invece, la sorella di mamma non l’aveva buttato l’impasto quella volta che le era venuto anche a lei argilloso e appiccicaticcio e con buona volontà aveva fatto frittelle che sembravano fatture, grandi come lavamani, con pizzi e corna, gocciolanti di olio che assorbivano come spugne. Per darle una mano zio Silvestro, il marito, si era caricato in testa tutto il canestro della frittura, l’aveva portato in cortile e aveva steso lungo il filo della biancheria tutte le zeppole. Una molletta per ogni zippola, alla fine le mollette non gli erano bastate più e si era ingegnato con spago e stringhe di scarpe per stenderle tutte.
E zia Mena, la moglie di zio Antonino, aveva fatto la torta e nella torta aveva messo troppa ammoniaca e i figli, quando si erano messi a mangiarla, erano rimasti a bocca aperta e poi, però, meno male, avevano ripreso fiato ansando e dicendo che di quella torta non ne volevano più. E allora zio Antonino, quando i figli facevano da cattivi diceva che nella credenza era rimasta metà di quella torta e i figli perdevano di nuovo la parola.
E le zeppole così dicendo mamma finiva di impastarle e Marinella metteva un sacco per terra, si inginocchiava, si rimboccava le maniche e si metteva a picchiare quella pasta diventando rossa come un peperone. E non ce la faceva più, ma bisognava aggiungere mezzo litro di succo d’arancia, il liquore e tutto il lievito. E bisognava amalgamare bene, diversamente l’impasto si raggrumava. E allora si metteva un’altra a picchiare…e bolle… bollicine…l’impasto si attacca sul fondo…si stacca…meno male. Quasi finito, speriamo che lieviti, chiudete le porte, portate coperte. Per carità di Dio. Quanta fatica!
E così, tra una zippolata e l’altra l’inverno se ne andava. Ci lasciava i muri unti di grasso e la cappa piena di fuliggine. Una luce più intensa evidenziava lo sporco dei vetri e il bisogno di respirare aria pura ci faceva spalancare porte e finestre.